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il progetto di mindfulness a cura di Valentina Giordano

COMPASSIONE, LA GENTILEZZA NEI CONFRONTI DEL DOLORE

Ama la tua sofferenza, non resisterle, non scappare da essa, dalle tutto te stesso, perché è solo l’avversione alla tua sofferenza che ti fa male.


~ Herman Hesse

Ieri sera riflettevo sulla compassione. Rientrando a casa dopo aver guidato una serata di Heartfulness, pensavo a quanto la mia pratica da un paio d’anni graviti attorno a questa parola, senza mai smettere di sorprendermi e insegnarmi qualcosa di nuovo.

Trovo interessante, ogni volta che mi avvicino a un argomento, partire dalle parole e osservarle da diverse angolazioni.

La compassione – dal latino cum patior“soffro con, soffro insieme” – è considerata una Dimora Divina, una delle forme del vero amore.

Possiamo definirla come la totale apertura del cuore, che permette di andare incontro alla sofferenza: è radicata nell’empatia – dal greco εμπαθεια “dentro la sofferenza, dentro il sentimento” – ovvero, la capacità di sentire quello che sente l’altro, ma è una costellazione molto più ampia. È uno stato dell’essere che include empatia, simpatia, non giudizio e quella distanza significativa che permette di sperimentare il dolore con spazio e saggezza, con la disponibilità a prendersene cura e dare sollievo.

La compassione, karunā in lingua pāli, letteralmente significa “gentilezza”, una gentilezza che si manifesta nei confronti del dolore. Un sentimento possibile se c’è l’impegno a essere testimoni del dolore, senza cercare di evitarlo o mandarlo via, e se c’è una base di presenza e la capacità di rimanere aperti.

Saggezza e amore: due aspetti della pratica che si rafforzano l’uno con l’altro. È impensabile un cammino di consapevolezza senza discernimento e comprensione, ed è impossibile risvegliarsi alla pienezza della vita senza apertura del cuore. Potremmo dire che coltivare la gentilezza, in tutte le sue forme, dall’amicizia per se stessi alla tenerezza verso il dolore, è l’intera pratica.

Ma torniamo alle parole.

Tra i privilegi del mio lavoro c’è quello di collaborare con persone che approfondiscono gli insegnamenti sulla benevolenza e la chiara visione da più anni di quanti io sia in vita. E così, durante gli ultimi mesi di lavoro con Connie, ho imparato che la parola “meditazione” in sanscrito è espressa dalla parola bhāvanā, che significa “far fiorire, coltivare”, mentre il corrispondente tibetano si ritrova nella parola gom, che vuol dire “familiarità”.

Meditare, allora, significa familiarizzare con il proprio mondo interiore, farci amicizia. Significa coltivare la consapevolezza, cioè ricordare attraverso l’esperienza ciò che sappiamo già nel profondo dl cuore.

Meditare sulla compassione vuol dire coltivare una virtù, la cui radice vis in latino significa “forza”: la fortitudine di abbracciare le difficoltà, la forza interiore che permette di affrontare positivamente le avversità, senza esserne travolti in preda ai nostri meccanismi reattivi, così da rafforzare anche un’altra qualità, la resilienza.

Certo, le difficoltà spaventano, eppure mano a mano che andiamo a fondo nella vita, impariamo a riconsiderarle come un dono e la paura lascia il posto al coraggio – indovinate un po’ – dal latino cor habeo, “ho cuore”.

Abbracciare le difficoltà, dicevamo. Niente di più controintuitivo. Eppure il cammino è controcorrente, ricordate? Cioè, contro la corrente del vivere a caso. Quando noto in me e negli altri la tendenza a girare lo sguardo dall’altra parte di fronte alla sofferenza, mi tornano sempre in mente le parole del Dalai Lama: “I posti che più ci fanno soffrire sono i posti dove è più possibile risvegliarci”.

Essere spinti da una nobile aspirazione non significa che non incontreremo la paura o l’avversione, è proprio questo il lavoro della compassione, che consiste nell’affrontare la sofferenza senza esserne sopraffatti. E per quanto grande sia il dolore che stiamo provando, possiamo sempre coltivare la gentilezza nei nostri confronti: ammorbidire l’autocritica, lasciare andare il giudizio compulsivo, smetterla di darci addosso. Verremo toccati così tante volte dal dolore – che fa parte dell’esperienza di essere vivi – c’è davvero bisogno di autoinfliggercene dell’altro?

Ieri sera ascoltavo la condivisione di Stefania, mi ha colpita la sincerità con cui ha espresso il dialogo interiore con se stessa in un momento di fatica: “Stefania, questo non me lo aspettavo da te!”. Suona familiare, no?

Jack Kornfield dice che se la tua compassione non include te stesso, allora è incompleta. Forse possiamo partire da qui.

La prossima volta che incontrerete qualche difficoltà, sentite il cuore caldo e regalatevi un bel momento di self-compassion:

1. COSA STA ACCADENDO?

Fermatevi per un paio di respiri e chiedetevi cosa state provando. Osservate senza giudizio e coltivate la consapevolezza che vi permette di riconoscere che “questo è un momento di sofferenza”.

2. NON SIETE DA SOLI

Entrate in connessione con la natura della vita umana, che include dei momenti di sofferenza, inevitabilmente. Ogni volta che sorge il pensiero “nessuno mi può capire”, o “nessuno ha provato quello che provo io”, guardatelo per quello che è: solo un pensiero. Non è reale. Tutti soffriamo, migliaia di altre persone hanno provato questo stesso dolore.

3. PRENDETEVI CURA DI VOI

Apritevi alla possibilità di gentilezza e generosità nei vostri confronti e coltivate quella distanza significativa che vi permette di osservare i pensieri che sorgono e decidere a quali credere. Scegliete di volervi bene.

Buona pratica!



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